Nicola Grande . 20/12/2024 . Tempo di lettura: 6 minuti
Non vivo in una bolla. Leggo i giornali, guardo la televisione e internet mi fornisce gli approfondimenti che cerco. Ma non ero preparato a vedere di persona quello che i mass media non riescono a trasmettere: la realtà. I quattro viaggi umanitari alle spalle mi hanno dato molto, ma mi hanno lasciato con un qualcosa in sospeso. È solo con il quinto, questa volta in terra Ucraina, che ho messo a fuoco quella sensazione di disagio che mi ha accompagnato sin dal rientro dalla prima missione di ritorno da Rzeszów, al confine con la Polonia il 27 marzo del 2022
Marzo 2022 e poi ancora giugno, dicembre e marzo 2023. Quattro viaggi per consegnare materiale sanitario e ambulanze in Ucraina. Quattro viaggi che, però si sono sempre fermati in Polonia a pochi chilometri dal conflitto, in territorio sicuro. Solo con questa quinta spedizione ho varcato il confine di una nazione in guerra, e tutto è cambiato. Guardare la televisione, leggere il giornale o navigare online ti dà un’idea distante, quasi ovattata, di un conflitto che dura da quasi tre anni. Mille giorni che sorvolano quella quotidianità che mi sono trovato di fronte a Chervonograd, vicino a Leopoli, e alla quale i mass media e i social non riescono a dare una dimensione. Perché i “piccoli” drammi umani quotidiani in un paese in guerra non fanno notizia, ma pesano come macigni una volta che li scopri.
Il viaggio è iniziato come gli altri fatti negli ultimi due anni. Ritrovo a Padova con il resto dei volontari dell’Associazione Bambini nel Deserto e partenza per la prima tappa alla volta di Brno, in Repubblica Ceca. Dopo il Tarvisio, le autostrade austriache si addentrano in boschi di conifere lungo tortuosi saliscendi che fanno danzare le due ambulanze su base Fiat Ducato del 2007 acquistate a Mantova e cariche di materiale sanitario. Dopo una lunga carriera nella cittadina lombarda, sono destinate a nuove avventure in Ucraina e affrontano con disinvoltura gli oltre 1500 chilometri che ci separano da Chervonograd. Passiamo Vienna ed entriamo in Repubblica Ceca a Mikulov. Arriviamo a Brno che è già tardi; abbiamo percorso poco più di 750 chilometri con una media di 100 km/h e le ambulanze non sono le sole ad avere bisogno di qualche ora di riposo. La mattina poco più di duecento chilometri ci portano al confine con la Polonia, e dopo altri 430 raggiungiamo quello con l’Ucraina. Se il passaggio da uno Stato all’altro all’interno dell’Unione Europea è stato rapido, la dogana con l’Ucraina è un’incognita. Molteplici controlli dei documenti, delle persone e dei veicoli con un percorso a tappe che sembra una vera e propria via crucis. Alla fine ci mettiamo quattro ore per entrare in territorio ucraino. Sono le 23:30 (considerando anche il fuso orario di un’ora) e a mezzanotte scatta il coprifuoco: nessun veicolo può circolare e tutte le luci si spengono. Chervonograd è ancora lontana, ci vogliono almeno due ore per percorrere 150 chilometri. Per fortuna, essendo una missione umanitaria, abbiamo un lasciapassare che ci permette di viaggiare anche durante il coprifuoco. Ma percorrere strade deserte e attraversare città al buio senza anima viva dà già un chiaro segnale che la nostra comfort zone l’abbiamo lasciata dietro di noi. Qui la situazione è ben diversa e si percepisce chilometro dopo chilometro. Arriviamo a Chervonograd costeggiando le miniere di carbone che rappresentano una delle fonti principali di sostentamento della città e di tutta la regione. Parcheggiamo esausti e ci sistemiamo nelle camere del nostro albergo con la soddisfazione di essere riusciti ad arrivare anche questa volta. Il nostro sonno, però, viene interrotto due volte dalle sirene che segnalano pericolo di attacco aereo. Tutto tace. Tratteniamo il respiro. Per noi è uno shock pensare a un bombardamento.
La mattina ci rendiamo conto che questa angoscia è parte della vita quotidiana degli ucraini. Quando consegniamo le due ambulanze a Puschuk Myroslav, l’assessore alla sanità della città, scopriamo che nella notte c’è stato un massiccio bombardamento in molte città, compresa Leopoli, a pochi chilometri di distanza. Qui il bilancio è stato di un morto. Nadia, presidente della sede locale di Bambini nel Deserto ci mostra le foto dell’attacco mentre visitiamo i locali che accolgono anche altre associazioni. Come quella di Oxana, che dà supporto psicologico alle donne che sono state vittime della guerra e in battaglia hanno perso figli, mariti, parenti, amici. Oppure Yuri, studente universitario, che prepara kit di primo soccorso che consegna alle unità impegnate in prima linea e ci fa vedere le patch che le varie compagnie impegnate al fronte gli hanno mandato in segno di riconoscenza.
In tutto il Paese le persone che non sono al fronte danno supporto come possono, chi inviando generi di prima necessità, chi realizzando ordigni con le stampanti 3D da trasportare oltre il fronte con droni auto-costruiti. Eppure, nonostante tutto, la vita continua e negli sguardi delle persone che incontriamo si legge un misto di speranza, tristezza, dolore e rabbia. Una combinazione che segna nel profondo gli animi di una nazione che ogni giorno piange i propri caduti in cimiteri sempre più affollati. In quello di Chervonograd a oggi ci sono circa 250 tombe di militari, ognuna con foto e bandiera giallo/blu che svetta verso il cielo. Ma il posto non basta e il vice-sindaco Koval Volodymyr ci dice che hanno dovuto comprare altro terreno, visto che ogni giorno arrivano nuove salme da seppellire. La mattina del nostro arrivo ne hanno portate tre.
Mentre camminiamo in silenzio fra le fila leggendo le date di nascita e di morte, vediamo molte persone sedute affianco alle tombe, come Olga, raccolta sulla tomba del figlio morto da pochi mesi. È vedova, e adesso non ha più nessuno per cui piangere. Facciamo fatica a reggere il suo sguardo. Siamo troppo abituati a vivere la nostra vita di comodità e di sicurezza. Anche lei lo era, fino a febbraio del 2022, poi tutto è cambiato. Torniamo nella sede delle associazioni. Non ci sono parole di conforto da poter dire in queste occasioni, meglio il silenzio. Mangiamo un pasto condiviso con il vice-sindaco, l’assessore alla sanità e i numerosi volontari che cercano di aiutare le persone più in difficoltà e Volodymyr ci ringrazia per queste 12 missioni umanitarie che hanno portato materiale sanitario e ambulanze in una città cardine per la logistica ucraina. Ricorda anche come all’inizio del conflitto ci fosse un flusso continuo di aiuti provenienti da ogni parte del mondo, mentre adesso siamo rimasti in pochi a dare continuità a un impegno che va oltre al volontariato.
Quello che consumiamo è un pasto amaro, anche se si cerca di andare oltre scherzando, facendo il karaoke e allontanando i pensieri con abbondante vodka locale. È tempo di ripartire. La strada per il ritorno a casa è ancora lunga, decidiamo quindi di avviarci anche perché c’è ancora da superare la dogana per rientrare in Polonia e tornare alla normalità. Salutiamo tutti con la speranza di rivederci in una situazione migliore. Il militare alla dogana controlla con precisione tutti i documenti e dopo un paio di ore siamo con le ruote su suolo polacco, sollevati, ma anche cambiati dentro. Perché quello che non ti raccontano i giornali, l’abbiamo visto con i nostri occhi, e si tratta di immagini, situazioni e persone che difficilmente dimenticheremo.
Nicola Grande, l’autore dell’articolo alle prese con uno dei tanti scatoloni consegnati